Ci sono ombre che attraversano i decenni senza mai dissolversi, fantasmi che non appartengono soltanto a un luogo o a un tempo, ma sembrano spostarsi da un paese all’altro, cambiando volto e soprannome, pur restando fedeli alla stessa ossessione.
La cronaca li ha etichettati con nomi diversi — il killer delle coppiette di Düsseldorf, lo Zodiac Killer della California, il Mostro di Firenze — eppure tutti hanno scelto la stessa scena, sempre uguale, come se fosse un palcoscenico destinato a replicarsi all’infinito: due giovani innamorati, un’auto parcheggiata in un luogo isolato, il silenzio della notte che avvolge tutto, e poi l’arrivo improvviso della morte.
In questo articolo proveremo a guardare oltre i confini tracciati dalle indagini e dalle sentenze, per seguire un unico filo nero che unisce tre storie lontane, e che forse racconta la parabola di un solo predatore capace di muoversi nell’ombra attraverso continenti e generazioni.
Düsseldorf, la prima ombra
La Germania degli anni Cinquanta era ancora una terra ferita, attraversata da cicatrici di guerra e da un senso diffuso di precarietà. Le città ricostruivano lentamente, ma nelle campagne intorno a Düsseldorf il paesaggio restava segnato da strade sterrate, campi disseminati di rovine e canali che tagliavano il territorio come vene oscure. Fu lì che cominciò a diffondersi una voce che presto si sarebbe trasformata in terrore: c’era qualcuno, un killer, che di notte si aggirava tra le strade secondarie, spiava i giovani innamorati appartati nelle auto e li giustiziava senza pietà.
Il copione era sempre lo stesso: un’auto parcheggiata in un luogo isolato, due ragazzi che cercavano intimità lontano da occhi indiscreti, il buio che sembrava offrire protezione e invece diventava trappola. Poi, dal nulla, l’assassino. Pochi colpi secchi, i vetri che esplodono, i corpi che crollano. E infine il silenzio, quel silenzio irreale che cala sempre dopo la violenza improvvisa.
La cronaca attribuì quegli omicidi a Werner Boost, passato alla storia come il “killer delle coppiette”. Arrestato e condannato per un solo delitto, fu ritenuto responsabile di altri episodi, ma le prove restarono deboli, gli incastri investigativi fragili, i dubbi molti più delle certezze. Era davvero lui l’artefice di quella catena di sangue? O dietro le quinte c’era un’altra figura, più elusiva, che avrebbe continuato a colpire ben oltre i confini della Germania?
Zodiac e la Water Theory
La storia si sposta di oltre dieci anni e di migliaia di chilometri, fino alla California di fine anni Sessanta. È il 20 dicembre 1968 e l’inverno cala con la sua nebbia sui dintorni di Vallejo, nella Bay Area. David Faraday e Betty Lou Jensen, due adolescenti innamorati, parcheggiano lungo Lake Herman Road. Non lo sanno, ma stanno entrando nella leggenda nera. Qualcuno si avvicina alla loro auto, impugna una pistola e apre il fuoco. David muore all’istante, Betty Lou tenta la fuga ma viene abbattuta con cinque colpi alle spalle.
Non è un episodio isolato. Settimane dopo, la notte del 4 luglio, un’altra coppia viene aggredita in un parcheggio a Blue Rock Springs. Lei muore, lui sopravvive ma resterà segnato per sempre. Pochi mesi più tardi, il 27 settembre 1969, sulle rive del Lake Berryessa, l’ombra torna a colpire: questa volta l’assassino indossa un costume nero con un simbolo cucito sul petto, lega le vittime e le trafigge con un coltello.
Ma c’è qualcosa di nuovo. Questa volta l’assassino non si accontenta di restare nell’ombra. Scrive lettere ai giornali, le firma con un cerchio tagliato da una croce, inserisce cifrari che sfidano la polizia e i crittografi. Il Killer si autoproclama Zodiac. Non è più solo un killer, è un regista che trasforma i suoi delitti in uno spettacolo mediatico.
Eppure, al di là del clamore, un dettaglio silenzioso lega ogni scena: l’acqua. Lake Herman, Blue Rock Springs, Lake Berryessa, persino San Francisco, con il suo omicidio urbano compiuto in una città che si affaccia sulla baia. Non è un caso, dicono i sostenitori della Water Theory: l’acqua è la cornice scelta, la firma invisibile che accompagna Zodiac ovunque. Un simbolo, un rituale o forse solo un bisogno pratico — luoghi appartati e raggiungibili, scenari ideali per sorprendere due vittime indifese.
Il rituale toscano
L’Italia degli anni Settanta e Ottanta scivola lentamente in uno dei casi più oscuri della sua storia criminale. Sulle colline toscane, tra gli ulivi e i fossati delle campagne, la scena si ripete ancora una volta: una coppia in auto, la notte, isolata. Una pistola calibro .22, colpi rapidi, e poi la lama che completa l’opera. Ma stavolta la violenza non si ferma all’omicidio. Il killer compie mutilazioni sui corpi femminili, segni crudeli che trasformano l’omicidio in un rituale ossessivo.
Dal 1968 al 1985, almeno otto duplici omicidi portano la firma del cosiddetto Mostro di Firenze. L’arma è sempre la stessa, una Beretta calibro .22 con munizioni Winchester “H”. Una costanza inquietante, quasi un feticcio. Ma al contrario di Zodiac, il Mostro non ama i riflettori: non firma i suoi delitti con simboli enigmatici, non inonda i giornali con messaggi cifrati. Eppure, a differenza di quanto si è spesso raccontato, anche il Mostro avrebbe fatto giungere la sua voce.
Nell’autunno del 1985 arrivarono infatti in procura alcune buste sinistre: una, indirizzata alla magistrata Silvia Della Monica, conteneva un lembo di seno umano, prelevato da una delle vittime; altre, recapitate a diversi sostituti procuratori, custodivano cartucce calibro .22 e strani messaggi composti con ritagli di giornale o scritte a macchina. Per alcuni erano autentiche, per altri depistaggi di un mitomane, ma resta il fatto che quelle missive macabre si inserirono come un’eco inquietante nella già cupa leggenda del Mostro. La sua voce è il sangue, il messaggio del sono i corpi martoriati.
Anche qui, però, ritorna lo stesso scenario: auto parcheggiate lungo strade bianche, campagne isolate, corsi d’acqua vicini. Torrenti e fossi che serpeggiano accanto alle scene del delitto, testimoni muti di un rituale notturno che sembra ripetersi all’infinito.
Un unico filo nero
Tre paesi, tre decenni, tre soprannomi. Eppure lo stesso copione: due ragazzi innamorati, la notte, un’auto appartata. Sempre una pistola di piccolo calibro, spesso una .22. Sempre un luogo isolato, spesso vicino all’acqua. Sempre la stessa ossessione: interrompere l’intimità, spezzare la promessa di amore e trasformarla in terrore.
C’è poi un dettaglio che attraversa entrambe le storie e che rende ancora più inquietante la loro somiglianza: molti degli omicidi del Mostro di Firenze e dello Zodiac avvennero in corrispondenza del novilunio, quando la luna è invisibile e la notte si fa più nera. Non è solo una coincidenza astronomica, ma un elemento che sembra assumere il valore di un simbolo oscuro: l’assenza della luna come cornice ideale per colpire, come se l’ombra stessa fosse parte del rituale, complice silenziosa di chi sceglie di trasformare l’amore in morte.
Potrebbe essere stata la parabola di un unico serial killer? Un giovane assassino in Germania negli anni Cinquanta, un predatore che si reinventa in California negli anni Sessanta, e infine un uomo più anziano e ossessionato che in Italia, negli anni Ottanta, raggiunge la fase terminale della sua escalation sadica? Un militare, forse, o un tecnico legato alle basi NATO, capace di muoversi tra continenti senza destare sospetti?
Gli indizi, letti con questa lente, sembrano combaciare. Le cronache ufficiali parlano di tre mostri distinti: Werner Boost, Zodiac, Pietro Pacciani, il Mostro di Firenze. Ma la suggestione è potente: forse non erano tre, forse era sempre lo stesso fantasma, capace di cambiare firma ma non ossessione, di attraversare continenti grazie a un passato militare o a legami internazionali, di scomparire quando le indagini si avvicinavano, per riapparire altrove, con un nuovo nome e un nuovo rituale.
Nessuna inchiesta ha mai provato questa connessione. Ma la suggestione resta. E a volte, le suggestioni sono più potenti delle prove.
Conclusione
Forse sono solo coincidenze. Forse è il nostro bisogno di dare senso all’assurdo, di riconoscere un volto unico dove in realtà ci sono storie diverse. Eppure, osservando il filo nero che lega Düsseldorf, Vallejo e le colline toscane, è difficile non provare un brivido.
L’idea che per oltre trent’anni un unico serial killer abbia inseguito la stessa scena, identica in due continenti, è inquietante e affascinante allo stesso tempo. Un uomo che ha cambiato nome, firma e modus operandi, ma che non ha mai tradito la sua ossessione più profonda: due giovani amanti, una macchina parcheggiata, il silenzio della notte. E l’acqua, che scorre lì accanto, pronta a custodire i suoi segreti.
E tu cosa pensi?
Tre serial killer distinti, o un’unica ombra che ha attraversato il mondo lasciando dietro di sé una scia di coppie spezzate e polizie disorientate?