Jeffrey Dahmer,

Jeffrey Dahmer: il cannibale di Milwaukee

Milwaukee, Wisconsin, anni ’70 – ’90 – In una tranquilla città del Midwest americano, si cela uno dei serial killer più noti e terrificanti della storia moderna. Jeffrey Dahmer, conosciuto anche come il “Cannibale di Milwaukee”, incarna una delle figure più oscure e inquietanti della criminalità, lasciando un’impronta indelebile nella memoria collettiva per la natura efferata dei suoi crimini.

La storia di Jeffrey Dahmer

Jeffrey Dahmer nacque il 21 maggio 1960 a Milwaukee, da qui, all’età di sei anni, si trasferì con la famiglia in Ohio.

I medici che l’ebbero in cura evidenziarono già in questo periodo i primi sintomi di una mente turbata. Anche se negò sempre questo tipo di collegamento, non si poteva negare che nella sua infanzia Dahmer abbia subito dei traumi tali de portarlo a trasformarsi in quello che poi diventò n All’età di otto anni venne infatti molestato sessualmente da un vicino di casa.

A partire da quell’età, Jeffrey sviluppò un carattere chiuso e apatico, incominciando a collezionare resti di animali morti che seppelliva nel bosco nei pressi della sua abitazione. Anche a scuola la situazione precipitò e iniziò a subire atti di bullismo.

Appena 14enne ebbe il primo rapporto omosessuale della sua vita con un ragazzo del quartiere, con il quale scoprirà anche l’uso e l’abuso di alcolici che lo accompagnerà per tutta la vita.

A sedici anni cominciò inoltre a soffrire di necrofilia: nelle sue fantasie sessuali l’oggetto del desiderio erano persone defunte. Per di più iniziò a consumare regolarmente grandi quantità di alcolici.

Dahmer non raccontò mai a nessuno delle molestie, fino al giorno del processo. Per capere perché sia diventato un mostro, bisogna però tenere conto anche dell’ambiente familiare in cui era cresciuto.

La sua famiglia era di ceto borghese, formata da genitori non sempre in completa sintonia. Il padre, Lionel, era un chimico affermato, dal carattere taciturno e dal temperamento freddo e distaccato. La madre, Joyce, invece era una centralinista con un carattere opposto a quello del marito. I due litigavano continuamente a causa della loro profonda differenza caratteriale, i litigi diventavano spesso violenti, creando così una situazione ambientale molto difficile.

Il padre, per evitare i continui alterchi con la moglie, iniziò a rimanere fuori casa passando gran parte del suo tempo in laboratorio a seguire le sue ricerche oppure andando a bere con gli amici. Quel poco tempo a casa lo passava quindi da ubriaco.

La madre non era da meno. Costantemente depressa, trascorreva le giornate, comprese quelle in cui era incinta di Jeffrey, a prendere pillole per cercare di guarire dalla sua malattia. Proprio durante la gravidanza la fobia peggiorò, arrivando ad assumere decine e decine di pillole in una singola giornata. A nulla valsero gli sforzi dei medici per convincerla a curare le su nevrosi dovuta anche al fatto che, inconsciamente, non desiderava la gravidanza.

Con la nascita di Jeffrey le cose peggiorarono. Dopo il parto soffrì di una violenta depressione post-partum che la costrinse ad abbandonare il posto di lavoro trasformandola così in una casalinga repressa e frustrata.

Dopo aver avuto il secondo figlio, la depressione della donna peggiorò ancora, portandola a liti sempre più violente con il marito. Si arrivò all’inevitabile separazione.

Nel 1978 i genitori di Jeffrey divorziarono definitivamente e ne seguì una lunga causa per l’affidamento del figlio minore.

Una volta che la donna ottenne la custodia di David, il secondogenito, lo portò via con sé, abbandonando in casa Jeffrey solo e senza cibo. Venne trovato dal padre solo due giorni dopo l’abbandono, seduto in mezzo a un pentagramma disegnato con il gesso sul pavimento della sua camera. Dahmer in stato di choc, completamente assente, aveva cercato di fare una seduta spiritica per poter parlare con i morti.

I crimini di Jeffrey Dahmer

Nello stesso anno, subito dopo il divorzio dei genitori e in seguito al conseguimento del diploma della scuola superiore, Jeffrey ormai 18enne, mise in atto il suo primo omicidio.

La vittima fu Steve Hicks, un autostoppista di diciannove anni: in quell’occasione l’assassino invitò il giovane nella casa dei genitori rimasta vuota, gli offrì una birra ed ebbe con lui un rapporto sessuale.

Quando però Steven decise di andar via, la mente di Dahmer crollò a causa di una forte sensazione di abbandono, e scatenò tutta la sua rabbia sul povero malcapitato. Lo colpì in testa stordendolo, per poi strangolarlo fino a farlo morire. Agì in modo rapido, facendo a pezzi il colpo del ragazzo e nascondendolo, in diverse buste di plastica, nell’intercapedine sotto la casa dei genitori abbandonandolo lì.

Subito dopo il delitto, si iscrisse all’Università statale dell’Ohio, dalle quale si ritirò dopo solo un semestre.

Non volendo cercare un lavoro, fu obbligato dal padre ad arruolarsi nell’esercito degli Stati Uniti e venne mandato in in una base in Germania. Dopo poco meno di due anni, durante i quali scomparvero due persone nella zona, Dahmer fu congedato dall’esercito, con disonore, per via del suo sempre più grave alcolismo. Quando rientrò in America si stabilì a Miami Beach in Florida per qualche tempo, per poi tornare a casa, dove, prudentemente disseppellì i resti del povero autostoppista per sciogliere quello che ne era rimasto nell’acido e spezzettare le ossa per spargerle nei boschi intorno casa.

L’alcolismo lo rese intrattabile. Nel 1982, il padre decise quindi di mandarlo a vivere con la nonna a West Alles, nel Wisconsin, ma la situazione non cambiò. Durante questo periodo Dahmer continuò a coltivare le proprie perversioni sciogliendo nell’acido scoiattoli morti e custodendo manichini rubati nell’armadio.

Fu poi arrestato per atti osceni in luogo pubblico durante una fiera di paese; la cosa si ripeté quattro anni più tardi e venne condannato a un anno di reclusione, che non scontò mai, ma fu obbligato a frequentare una clinica psichiatrica.

Proprio questa sua libertà gli consentì di uccidere nel 1987 la sua seconda vittima.

La successive vittime di Jeffrey Dahmer

Il 15 settembre del 1987 Dahmer incontrò in un bar gay il 24enne Steven Tuomi. Dopo aver ingerito consistenti quantità di alcolici, l’assassino lo portò in un albergo dove lo uccise e, agendo con lucidità, infilò il cadavere in una valigia acquistata per l’occasione e lo portò nella cantina della cosa di sua nonna dove violentò ripetutamente il corpo senza vita di Steven. Infine smembrò il cadavere e gettò resti fra i rifiuti ai bordi della strada, per farli portare via dagli addetti della nettezza urbana.

Con questi gesti Dahmer mise in pratica un sogno ricorrente di gioventù, nel quale vedeva sé stesso uccidere una persona per poi violentarla e farla a pezzi.

Sette mesi dopo, precisamente il 17 gennaio 1988, uccise nella casa di sua nonna a West Allis, Jamie Doxtator, un quattordicenne nativo-americano che frequentava i locali gay delle città in cerca di una relazione.

Il 27 marzo 1988 massacrò Richard Guerrero, un ragazzo 23enne di origini messicane, anch’egli incontrato in un bar gay. La famiglia della vittima però ribadì più volte l’estraneità del ragazzo a tale ambiente.

Entrambe le volte Jeffrey agì con le stesse modalità: li drogava, li violentava, li uccideva, li faceva a pezzi ed eliminava i resti nell’acido.

Nel settembre dello stesso anno venne allontanato dalla casa di sua nonna a causa del suo comportamento da vagabondo, dei continui rumori molesti e dei terribili odori provenienti dalla cantina.

Si trasferì così in un appartamento a Milwaukee, sulla 25° strada, vicino alla fabbrica di cioccolato dove aveva trovato impiego.

In quello stesso mese adescò Somsak Sinthasophone, un ragazzo laotiano di tredici anni, promettendogli dei soldi per un servizio fotografico. La vittima riuscì a sfuggire all’aggressore e a denunciare le violenze subite.

Grazie alla denuncia di Somsak, Dahmer fu arrestato e accusato di violenza sessuale.

La prima condanna di Jeffrey Dahmer

Nel gennaio del 1989 venne condannato a 10 mesi da scontare in un ospedale psichiatrico ma venne rilasciato fino alla sentenza esecutiva nel maggio dello stesso anno.

Proprio mentre era in attesa della sentenza, il 25 marzo del 1989, il mostro tornò all’opera questa volta massacrando Anthony Sears, un 24enne di colore che aveva incontrato a “La Cage” un locale gay.

Anche in questo caso le vittima fu drogata, strangolata e in seguito violentata.

Ottenuta dopo 10 mesi la libertà condizionata, Dahmer visse inizialmente a casa della nonna per poi trasferirsi definitivamente, a partire dal maggio 1990, in un appartamento situato a nord di Milwaukee, che diventò poi famoso come il “mattatoio”.

Da allora in poi intensificò la propria attività omicida uccidendo dodici persone in poco più di un anno, precisamente da giugno 1990 a luglio 1991.

A maggio del 1991 che avvenne l’episodio più inquietante della storia del mostro di Milwaukee: venne ucciso Konerak Sinthasomphone, fratello minore del ragazzo che Jeffrey aveva adescato anni prima.

A consegnare la vittima al suo carnefice è proprio la polizia. Konerak riuscì a liberarsi dopo le torture e si rifugiò in una stazione di polizia. Qui raccontò tutto agli agenti ma Jeffrey però li convinse del fatto che il ragazzo era il suo fidanzato e che, a seguito di una litigata tra innamorati, aveva inventato ogni cosa per fargli un dispetto e metterlo nei guai.

Dal canto suo il giovane fece fatica anche a difendersi, a causa delle droghe che Dahmer gli aveva iniettato prima della fuga. Le forze dell’ordine non volendosi immischiare nelle vicende dei due amanti, lasciarono libero Konerak di andarsene con Dahmer, che lo riportò nel suo appartamento per fine il lavoro che aveva cominciato.

Quando se venne a sapere di questo fatto, durante il processo, la polizia di Milwaukee provvide a espellere i poliziotti: un atto forse inutile e certamente tardivo, dal momento che diedero al mostro il tempo di proseguire con i suoi omicidi.

Anche dopo che fu vicino alla cattura Dahmer, non si fermò, né si intimidì, anzi, accelerò nel suo operato cominciando a colpire con una frequenza serrata fino ad arrivare ad un omicidio a settimana.

Il 30 giugno 1991 uccise Matt Turner, seguito da Jeremiah Weinberg il 6 luglio, e da Oliver Lacy solo otto giorni dopo.

Il 19 luglio del 1991 il “Mostro di Milwaukee” adesca quella che sarà la sua ultima vittima: Joseph Brandehoft, un ragazzo originario dell’Illinois. Anche lui drogato, strangolato e fatto a pezzi.

Il 22 luglio 1991 Jeffrey Lionel Dahmer consegnò al mondo il suo biglietto da visita nel più sconvolgente dei modi.

Quella sera invitò Tracy Edwards, un 32enne di colore, nella propria abitazione. Gli somministrò una dose di sonnifero, lo ammanettò e lo costrinse a entrare nella stanza da letto. Accortosi della presenza di foto di cadaveri smembrati appese ai muri e di un odore nauseabondo proveniente da un barile, Edwards, approfittando di un momento di distrazione di Jeffrey, lo colpi e fuggì dall’appartamento.

Tracy Edwars venne fermato due agenti di pattuglia, che se lo videro comparire davanti alla loro macchina ancora ammanettato e seminudo mentre correva per le vie di Milwaukee.

Edwars, in evidente stato di choc, raccontò ai poliziotti di essere sfuggito per miracolo da un pazzo che lo aveva torturato e tenuto sotto la minaccia di un coltello in un appartamento non molto distante.

L’intervento della polizia

Le forze dell’ordine, pur essendo preparate a tutto al momento della cattura, non immaginavano quello che avrebbero trovato nell’abitazione di Dahmer. Quando fecero irruzione nell’appartamento, i due agenti si trovarono di fronte ad un bel ragazzo biondo, ben vestito e dai modi gentili. Quando i poliziotti entrarono di forza nell’appartamento il mostro non oppose resistenza rimanendo seduto sul letto, in silenzio, oscillando in modo ritmico, completamente assente.

In grossi bidoni pieni d’acido vennero trovati dei corpi parzialmente liquefatti. Teste sotto spirito erano in bella mostra sull’armadio, mentre altre teste giacevano nel freezer. Vennero rinvenuti anche pezzi di carne umana, pelle, mani e genitali sparsi tra il salotto e la cucina.

Una scena che rimarrà impressa per sempre, oltre che negli annali di medicina legale, anche nelle menti di chi entrò in quella casa-mattatoio.

Anche se cercò di negare il suo coinvolgimento con i ritrovamenti, Dahmer confessò quasi subito tutto quello che aveva fatto, portando alla luce ben diciassette omicidi.

Tutte le sue vittime erano maschi, adolescenti o adulti gay di etnia afroamericana o asiatica, con precedenti penali di una certa entità alle spalle.

Dahmer li adescava con la scusa di essere un fotografo in cerca di modelli e poi li attirava a casa sua con il pretesto di vedere un film hard e bere qualcosa insieme o semplicemente proponendo loro un rapporto sessuale.

Il suo modus operandi era sempre lo stesso: portava le sue vittime a casa dove venivano dogate, violentate, strangolate, nuovamente violentate e poi fatte a pezzi con una sega. Alcune parti dei corpi venivano mangiate ed altre tenute come souvenir o sciolte nell’acido.

Il processo a Jeffrey Dahmer

Per poter effettuare il processo, che inizio il 30 gennaio 1992, furono adottate severe misure di sicurezza, non tanto per la pericolosità del serial killer quanto per quella dei parenti delle vittime.

Durante il processo si scoprì che Dahmer non era solo solito ammazzare e fare a pezzi le sue vittime, ma anche, dopo averle violentate, mangiarsele. Ma non solo provvedeva a effettuare un completo e dettagliato servizio fotografico dei cadaveri e delle loro parti. . Le morti erano tutt’altro che indolori o rapide, arrivò a fare esperimenti sulle sue vittime ancora vive nel tentativo di annullare la loro volontà.

Nonostante la difesa avesse invocato l’infermità mentale per il proprio assistito, Dahmer fu riconosciuto colpevole di 15 capi d’imputazione e, con sentenza del 13 luglio 1992, condannato alla pena dell’ergastolo per ogni omicidio commesso totalizzando 957 anni di prigione.

Il giudice Laurence Grom, presidente della Corte che condannò Dahmer, spiegò il motivo di sommare un ergastolo all’altro: la sentenza era stata strutturata in modo tale che, anche nel caso in cui i legali avessero tentato un ricorso in appello, Jeffrey Dahmer non sarebbe stato mai più messo in libertà.

Damher, dal momento dell’arresto alla sua morte, non diede nessun segno di pericolosità, bensì assistette passivo a tutto quello che la macchina della Giustizia aveva in serbo per lui.

Seduto nelle aule del tribunale, mentre venivano elencati i suoi crimini senza tralasciare nessun particolare del suo operato, Jeffrey non fece trasparire mai nessuna emozione, nemmeno di fronte allo strazio dei parenti delle sue vittime: nemmeno quando cercarono di aggredirlo davanti al giudice.

Incarcerato nel Columbia Correctional Institute di Portage, durante i primi mesi di detenzione Dahmer scopre la religione e si dedica completamente alla cristianità.

La morte di Jeffrey Dahmer

In seguito a un’aggressione subita il 3 luglio 1994 durante la quale fu ferito alla gola, gli fu proposto il trasferimento in isolamento; Dahmer rifiutò finendo per essere nuovamente aggredito da Christopher Scarer, il 28 novembre 1994. L’uomo, un detenuto affetto da schizofrenia, gli fracassò il cranio con una spranga di ferro uccidendolo sul colpo.

Il suo cervello fu in seguito prelevato e conservato per studi scientifici.

Jeffrey Dahmer venne cremato e le sue ceneri suddivise tra i due genitori.

Nel 1995 Christopher Scarver, l’ergastolano che lo uccise in carcere, fu condannato a scontare altri due ergastoli: il primo per l’omicidio di Dahmer, il secondo per l’uccisione di un altro detenuto.

Nel 1995 la città di Milwaukee acquistò per mezzo milione di dollari tutta la sua macabra collezione di corpi smembrati L’interesse della città statunitense in cui colpì non fu spinto dal desiderio di esporli in un museo del crimine, ma di distruggerli.

Nel 2002 venne girato un film sulla vita di Jeffrey Dahmer, “Dahmer, Il cannibale di Milwaukee”, il film è stato diretto da David Jacobson con Jeremy Renner nel ruolo del mostro di Milwaukee.

Al momento Evan Peters sta collaborando con Ryan Murphy nella realizzazione di una serie esclusiva di prossima uscita per Netflix intitolata Monster: The Jeffrey Dahmer Story, dove interpreterà l’assassino

L’appartamento dove aveva compiuto i macabri omicidi è stato raso al suolo ed è tutt’ora un’area non edificabile.

Il padre, Lionel Dahmer è in pensione e vive con la seconda moglie Shari. Si è rifiutato di cambiare nome e ribadisce il proprio amore nei confronti del figlio. Joyce Flint, la madre, è morta di cancro nel 2000. David Dahmer, il fratello minore, ha cambiato cognome e vive nell’anonimato

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