Silvia Da Pont

Il dramma silenzioso di Silvia Da Pont: la verità oltre il silenzio

Busto Arsizio, anni ’50 – La storia di Silvia Da Pont emerge indelebilmente scolpita nella memoria di chi l’ha vissuta e risuona ancora oggi come un mistero insondabile e una tragedia umana profondamente toccante che suscitò scalpore nell’Italia degli anni ’50.

La storia di Silvia Da Pont

La storia di Silvia Da Pont è una di quelle storie quasi dimenticate ma tristemente vera e dal finale tragico.

Silvia Da Pont era una ragazza di umili origini, nata in una famiglia di poveri contadini a Cesiomaggiore in provincia di Belluno.

La ragazza all’età di 21 anni decise di rendersi indipendente e si allontanò dal paese di origine per recarsi a Busto Arsizio dove trovò lavoro in veste di domestica presso la famiglia Nimmo che abitava in una villetta, di proprietà del Cavalier Candiani, in Via Galilei, all’interno della quale Adelchi Nimmo, dipendente della compagnia aerea TWA, aveva in affitto un appartamentino dove viveva con la moglie due bambini e disponeva anche di una camera al piano superiore, nel sottotetto, che venne destinata alla domestica.

Il signor Nimmo aveva ricevuto da poco una promozione e, poiché tutta la famiglia doveva trasferirsi a Roma, sua moglie Adele propose a Silvia di seguirli e trasferirsi con loro nella capitale.

Silvia Da Pont accettò di buon grado, però, prima di partire, voleva trascorrere qualche giorno a casa della sua famiglie che non vedeva da tempo.

La scomparsa di Silvia Da Pont

Il 7 settembre 1951 Silvia Da Pont, in procinto di partire, uscì di casa per una commissione; passarono le ore ma stranamente non fece ritorno presso la casa dei Nimmo.

Alle 17:00 dello stesso giorno i Nimmo fecero denuncia di scomparsa al commissariato di Pubblica Sicurezza di Busto Arsizio. Un poliziotto ispezionò l’appartamento e la camera della ragazza, trovando tutto in ordine. Venne allora emesso un fonogramma alla Polizia di Belluno, che si recò a Cesiomaggiore pensando che la ragazza fosse tornata in famiglia. Gli agenti però constatarono che Silvia non era tornata dai genitori.

A quel punto la domanda sorse spontanea, dove poteva essere andata Silvia Da Pont in ciabatte e grembiule? Non poteva essere sparita nel nulla.

Una sua amica dichiarò che ultimamente era depressa e irascibile. Si fece strada quindi, la convinzione che la giovane cameriera vivesse una relazione amorosa difficile e che aveva semplicemente fatto un colpo di testa fuggendo di casa. Magari proprio in compagnia di uno spasimante.

Nessuno però prese in considerazione il fatto che Silvia Da Pont aveva lasciato tutti i suoi abiti e i suoi risparmi in casa Nimmo.

I primi di ottobre la sorella, Maria Da Pont, bambinaia a Zurigo, si recò a Busto Arsizio e iniziò a indagare facendo il giro dei negozi dei dintorni, mostrando a tutti una fotografia della sorella.

Inoltre, perlustrò la casa e la cantina dei Nimmo, insieme agli stessi proprietari ma ancora una volta non emerse nulla.

L’amica presso la quale Maria alloggiava, una mattina le raccontò di uno strano sogno in cui Silvia Da Pont, vestita di bianco, con un mazzo di fiori in mano le diceva che non era mai uscita da quella casa.

Il caso cadde nel dimenticatoio.

La famiglia Nimmo continuò la sua vita e si trasferì a Roma.

La scoperta del corpo di Silvia Da Pont

Il 28 ottobre i Nimmo ritornarono a Busto Arsizio per completare il trasloco. Una volta in cantina i bambini trovarono un albero di Natale che volevano portare con loro. A quel punto i Nimmo lo spostarono e fecero una scoperta terrificante: dietro ai rami c’era il corpo senza vita di Silvia.

La povera ragazza era morta da qualche giorno. Il cadavere di Silvia Da Pont era intatto, cereo, ma non emana cattivo odore.

Era ridotta quasi a uno scheletro; lei che in vita era alta e robusta, adesso arrivava a malapena a trenta chili. Apparve subito una strana morte.

Iniziarono così le indagini.

Le indagini sulla morte di Silvia Da Pont

L’autopsia rivelò che la povera ragazza era morta di inedia e non c’erano tracce di violenza. Si suppose che si era suicidata nascondendosi in cantina e lasciandosi morire lentamente di fame.

Il Capitano dei Carabinieri, Angelo Mongelli, non la pensava così. Che motivo aveva Silvia Da Pont per uccidersi?

Decise quindi di approfondire le indagini andando a interrogare il padrone di casa Carlo Candiani, che abitava nell’altra metà della villetta bifamiliare.

L’uomo, 70enne, con la passione per la farmacologia, ricevette il Capitano Mongelli e gli fece visitare la casa senza problemi. Soltanto quando gli venne chiesto di mostrare i solai l’uomo cominciò a turbarsi e a sudare freddo.

Appena il Capitano entrò nella stanzetta piena di cianfrusaglie, notò subito in terra una sagoma priva di polvere sul pavimento. Chiese spiegazioni e l’anziano dichiarò di aver spostato una cassa da poco.

Non era possibile che quella cassa impolverata fosse stata spostata da pochi giorni. Carlo Candiani diventò quindi un indiziato, venne interrogato e alle fine confessò.

La confessione

Messo sotto torchio, in questura, il Candiani fece molte ammissioni. In preda a fantasie sessuali, sul conto della giovane, aveva trovato il modo di attirarla nel suo “laboratorio” e l’aveva stordita con l’etere.

Poi aveva trasportato Silvia Da Pont in una camera della soffitta, mantenendola sempre priva di conoscenza per mezzo del cloroformio. Insomma, un giocattolo passivo nelle mani di un represso sessuale.

Per un mese e mezzo Silvia Da Pont era stata una sorta di bambola gonfiabile alla mercè dell’uomo. Veniva alimentata, per così dire, solo con un cucchiaino di vino e di latte.

Non la teneva nemmeno adagiata su un letto o un divano ma dentro una cassa.

Quando Silvia Da Pont, allo stremo delle forze, era morta, Candiani l’aveva trasportata cantina con l’aiuto di Vittorio Tosi, un suo amico.

Tosi, dopo essere stato interrogato dai Carabinieri sparì nel nulla. Qualcuno suppose che, oppresso dal rimorso per aver collaborato, anche senza saperlo, a quel mostruoso delitto, si era gettato nel Ticino.

Il processo

Il processo a Carlo Candiani inizio nell’aprile 1953. L’uomo ritrattò ogni confessione e sostenne che le sue dichiarazioni gli erano state estorte dai Carabinieri.

Gli avvocati difensori puntarono su questo e insinuarono che Silvia Da Pont era di dubbia moralità, malata di epilessia o di nervi, e che quindi aveva deciso di suicidarsi come era stato supposto all’inizio.

Il “delitto di Busto Arsizio”, così venne chiamato dalla stampa, finì su tutte le prime pagine dei Giornali dell’epoca.

Carlo Candiani venne condannato a 25 anni di reclusione. Ricorse in appello e i suoi avvocati riuscirono a far cambiare il capo d’imputazione: da omicidio volontario a suicidio preterintenzionale.

Per la difesa l’uomo non aveva assolutamente intenzione di uccidere la ragazza, ma la sua morte, così strana, sarebbe stata causata dalle dosi di narcotico troppo alte somministrate per errore.

In appello la sentenza venne ridotta a 14 anni. Nell’agosto 1957 Carlo Candiani morì per collasso cardiaco, nel carcere di Parma in cui stava scontando la sua pena.

 

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