Viareggio, fine degli anni ’60 – Un piccolo paese solitamente tranquillo diventa il centro di una vicenda sconvolgente. Ermanno Lavorini, un ragazzo di soli 12 anni, scompare in circostanze misteriose nel pomeriggio del 31 gennaio 1969. La sua sparizione scatena un’indagine intricata che coinvolge la comunità e le forze dell’ordine, sconvolgendo la quiete di Viareggio.
La storia
Ermanno Lavorini, 12 anni, era poco più di un bambino, timido ed esile, con i sogni di un adolescente che non vedeva l’ora iniziasse il Carnevale, in una Viareggio che si era già vestita a festa.
Come d’abitudine dopo il pranzo, intorno alle 14:30, uscì di casa. Dicendo alla madre che sarebbe stato fuori un’ora al massimo. Inforcò la sua fiammante bici rossa e si recò nella piazza dove era stato allestito un lunapark.
Il ragazzino scomparve il pomeriggio del 31 gennaio 1969, a pochi giorni dalla terribile strage di Piazza Fontana, che aveva dato inizio agli anni di piombo.
Alle 17,40, a casa Lavorini arrivò una misteriosa telefonata a cui rispose Marinella, la sorella maggiore, che restò impietrita. Dall’altro capo del ricevitore un individuo affermò che Ermanno Lavorini era stato rapito: la richiesta di riscatto era di 15 milioni di Lire, una cifra astronomica per l’epoca. Poi il silenzio.
Le autorità vennero immediatamente avvertite e si misero sulle tracce di Ermanno Lavorini e dei suoi rapitori. Da allora le indagini seguirono piste rivelatasi infondate e intanto si erano fatti largo sedicenti esperti e sensitivi tra cui l’olandese Gerard Croiset.
Era l’Italia ingenua che credeva ai maghi e alle sedute spiritiche, quella che si riuniva intorno alla televisione per il Tg delle venti e ascoltava avidamente tutte le notizie.
I Lavorini, che avevano avviato un negozio di tessuti nel centro di Viareggio, passarono giorni di angoscia mentre continuavano le ricerche nei canali, nella darsena, dentro le cantine e garage, in mezzo alle selve dei pini e lecci a ridosso del mare, dove la luce faticava a entrare perfino d’estate.
Per due mesi non si seppe nulla di Ermanno Lavorini, ovviamente la famiglia lo credeva ancora in vita, ma in realtà tre ore dopo il rapimento era già morto.
Il ritrovamento di Ermanno Lavorini
Il suo corpo venne casualmente ritrovato il 9 marzo, da un signore che portava a spasso il cane, perfettamente vestito e ricoperto da un velo di sabbia della Pineta di Ponente a Marina di Vecchiano.
La vicenda portò a Viareggio i più noti investigatori italiani dell’epoca, come il capo della squadra Mobile di Bologna, Mario Iovine e il colonnello Mario De Julio, fedele del generale De Lorenzo, l’ex-capo dei servizi Segreti Militari.
Comparve perfino un mago perché, quando la ragione non bastava, ci si aggrappava alla superstizione.
Viareggio visse il rapimento di Ermanno Lavorini come un incubo e a poco a poco la città venne sconvolta da rivelazioni terribili.
Secondo il medico legale che eseguì la prima autopsia, il ragazzino era morto probabilmente dopo un’atroce sofferenza causatagli da un pugno che gli aveva ridotto in poltiglia il cervello, ma una seconda perizia più approfondita stabilì invece che era morto per asfissia.
L’ipotesi del movente omosessuale
Prese piede l’ipotesi che l’omicidio avesse precisi moventi, a causa il luogo del ritrovamento: la Pineta era punto d’incontro per le comunità omosessuale della zona.
In quegli anni, l’omosessualità, trattata come malattia mentale, spesso era erroneamente accoppiata alla pedofilia e i giornali non mancarono di produrre nuovi ingannevoli accostamenti tra omosessuali e pedofili anche per il caso Lavorini, fecero loro questa falsa ipotesi con il preciso e unico scopo di aumentare le vendite.
Nei mesi successivi alla scomparsa di Ermanno i giornali alternarono fandonie e volgarità. Spregiudicate ricostruzioni disegnarono il delitto sessuale al centro di uno scenario morboso e imperfetto ma ideale per placare i turbamenti derivati da questa orribile morte. Si cominciò così a cercare il cosiddetto “mostro”.
Le indagini sulla morte di Ermanno Lavorini
La polizia iniziò a effettuare indagini pesanti, anche se gli investigatori propendevano verso le supposizioni mediatiche. Tra gli interrogatori condotti dalle autorità spiccò quello a un sedicenne: Marco Baldisseri, frequentatore della pineta per denaro. A fare il suo nome fu il ventenne Pietro Vangioni, che durante le indagini aveva offerto la sua collaborazione ai Carabinieri per depistare le indagini.
Vangioni indicò agli inquirenti che il colpevole era proprio Baldisseri. Tuttavia, la testimonianza e le accuse mosse dal giovane risultarono piene di incongruenze, e un approfondimento delle indagini portò alla luce anche altri ragazzi coinvolti nel caso: Rodolfo Della Latta, 19 anni, e lo stesso Vangioni, che risultò non essere un frequentatore della Pineta.
Cominciarono così a farsi nomi e cognomi, prima nel mormorio del lungomare e poi sulle pagine dei giornali, potenti come una mazza nel distruggere, in un attimo, la vita di una persona.
I tre giovani cercarono di scagionarsi accusando alcuni esponenti dell’amministrazione cittadina tra cui Renato Berchielli, l’allora sindaco di Viareggio, e Ferruccio Martinotti, un altro esponente del partito socialista. I ragazzi sostennero che erano immischiati in un giro di pedofilia e pedopornografia. Le calunnie, almeno in parte infondate, misero alla gogna non solo i politici, ma anche commercianti ed esponenti pubblici locali, alcuni dei quali subirono tentativi di linciaggio pubblici, ma al contempo permisero quali investigatori di arrivare ai reali colpevoli del sequestro e del conseguente omicidio.
Dai tre giovani venne tirato in ballo anche Giuseppe Zacconi, figlio del grande attore Ermete. Il ragazzo gestiva varie sale cinematografiche e aveva la fama di uomo di mondo. Accusato di essere un omosessuale fu costretto a dichiarare di essere impotente per discolparsi dall’accusa.
Il cuore di Giuseppe Zacconi però non resse alla vergona e si fermò per un infarto, due mesi dopo quegli interrogatori. Nonostante le contraddizioni, la pista dei “pedofili” continuava a reggere, in particolare trovò nuovi appigli quando gli adolescenti tirarono in ballo un certo Adolfo Meciani, quarantenne viareggino, indicandolo come autore della telefonata a casa Lavorini.
Si scoprì che l’indagato conduceva una doppia vita: davanti era un uomo rispettabile, sposato e padre di famiglia insomma conduceva una vita “in regola”, costruita ad hoc per nascondere la sua omosessualità che viveva segretamente frequentando la pineta e accompagnandosi a giovani prostituti.
La sua vita rotolò via con quella di Ermanno Lavorini; quando lo sbatterono in carcere a Pisa, strappo un lenzuolo, lo legò al termosifone e si impiccò. Sua moglie partecipò ai funerali indossando l’abito da sposa. Non c’entrava nulla l’omosessualità nascosta di Adolfo Meciani, che con la sua duetto rossa rimorchiava i ragazzini della pineta.
Non c’entrava nemmeno Giuseppe Zacconi, vittima della sua solitudine. Entrambi morti di dolore: il primo suicida, l’altro di crepacuore, entrambi vittime di questa brutta storia italiana.
La confessione
Nell’aprile 1969 Baldisseri confessò: aveva ucciso Ermanno Lavorini durante una lite e poi lo aveva sepolto, coinvolgendo Rodolfo Della Latta e Pietro Vangioni. I tre vennero così portati a processo.
Fu il giornalista Marco Nozza a dare una svolta alle indagini, intuendo che dietro il delitto di Ermanno Lavorini vi era molto di più. Il cronista infatti scoprì che i tre ragazzi appartenevano a un’associazione politica, il Fronte Monarchico giovanile – Sezione Viareggio, guidato proprio da Pietro Vangioni, legato all’unione Monarchica Italiana.
Il caso iniziò a colorarsi di quelle sfaccettature politiche estremiste, le stesse che caratterizzarono l’Italia nei decenni successivi.
Sempre Nozza scoprì che i tre ragazzi coinvolti parteciparono ai fatti de “La Bussola” la celebre discoteca della Versilia, che, nel Capodanno del 1968 divenne il luogo simbolo della contestazione studentesca.
Gli imputati, facevano parte di un commando di estrema destra, avevano lo scopo di alimentare la tensione: aumentando i danni prodotti dalla controparte di sinistra, con l’obiettivo de far ricadere tutta la colpa sugli avversari politici.
Alla luce di questi nuovi elementi, i magistrati scoprirono anche, che dopo il delitto di Ermanno Lavorini la Sezione del Fronte della località toscana si sciolse e la sede venne chiusa in fretta e furia.
L’ambiente su cui puntare era quindi un altro: quello dell’estrema destra.
Il rapimento del piccolo Ermanno Lavorini doveva servire a finanziare l’attività clandestina di un gruppo eversivo neofascista, ma le cose erano andata male, e allora ecco il depistaggio verso l’ambiente omosessuale.
Tra colpi di scena, depistaggi, false testimonianze, i tre indagati dettero vita a un reciproco scarico di colpe che, unito ai numerosi scambi di versione, fece letteralmente impazzire la giustizia italiana. A causa di questo caos, il procedimento inizio solo nel gennaio del 1975.
Le condanne
Il 6 marzo il processo si concluse con la condanna a 15 anni e quattro mesi di carcere per Della Latta, militante del Msi italiano e cassiere dell’associazione; Baldisseri a 19 anni, mentre Pietro Vangioni, leader del Fronte Viareggino fu assolto per insufficienza di prove.
La Corte di Assise di Pisa accolse però la tesi del Pubblico Ministero, negando che il delitto avesse avuto un movente politico ed affermando che era maturato in un ambiente di omosessuali.
I ragazzi peraltro, sembravano godere di una speciale “protezione”, in particolare Vangioni, già confidente delle forze dell’ordine.
Che c’era dietro il sequestro Ermanno Lavorini? Perché nell’unica telefonata che i sequestratori fecero la voce era di un adulto e non di uno dei ragazzi?
Il sospetto che dietro il caso Lavorini ci fosse un “Deus ex machina” politico non fu cancellato nella coscienza dell’opinione pubblica neanche della Cassazione che il 13 maggio del 1977, modificò la sentenza, condannando il terzetto per rapimento a scopo di estorsione e omicidio preterintenzionale. Baldisseri prese 8 anni e 6 mesi per aver colpito Ermanno Lavorini, provocandogli gravi lesioni; Della Latta 11 anni per averlo seppellito, soffocandolo definitivamente; Vangioni ebbe 9 anni.
Una sentenza incredibilmente lieve in una storia piena di omissioni, menzogne, depistaggi. Condanne alleggerite di molto, più che dimezzato rispetto al primo grado che invece li aveva reputati responsabili di omicidio volontario.
Tutti e tre sarebbero poi usciti dal carcere in anticipo rispetto alla scadenza della pena.
Ad oggi la verità su questo caso, che apparteneva alla sfera del dolore dell’intera città di Viareggio, non è mai stata rivelata.
L’impatto fu tale che il cantautore Franco Trincale incise su un 45 giri una ballata dai toni cupi dal titolo, “Il ragazzo scomparso a Viareggio”, in cui invitava i rapitori a ridare alla mamma il piccolo Ermanno Lavorini.
Al primo disco ne seguirono altri, fino a un totale di cinque, il cui contenuto si andava aggiornando man mano che venivano diffuse nuove rivelazioni sul caso.
Il giornalista Sandro Provisionato provò a ricostruire le vicende in un libro “Il caso Lavorini. Il tragico rapimento che sconvolse l’Italia”.
Ancora oggi, a distanza di più di cinquant’anni dal caso e dalle bugie che fecero piombare l’Italia in un grande tiro al bersaglio nei confronti di innocenti, Vangioni continua a sostenere che non fu un sequestro a scopo di estorsione né un fatto politico, ma fu un fatto sessuale, come ha raccontato in un’intervista recente al corriere delle sera.
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