Roma, Italia, 1990 – Una delle vicende criminali più oscure e discusse nella storia recente italiana si consuma in una tranquilla via della capitale. Il delitto di Simonetta Cesaroni, noto come delitto di Via Poma, con la sua trama di misteri e speculazioni, rimane uno dei casi irrisolti più famosi e controversi del paese, simbolo delle difficoltà e delle criticità del sistema giudiziario italiano.
La storia di Simonetta Cesaroni
Il 7 agosto del 1990, in un ufficio di Via Carlo Poma 2, a Roma, venne rinvenuto il corpo senza vita di una ragazza, trafitto da 29 coltellate. Si trattava di Simonetta Cesaroni, non ancora ventunenne, uccisa con un tagliacarte mentre stava svolgendo un lavoro al computer.
A trentadue anni da quel drammatico giorno, dopo un complesso iter processuale, la sua morte resta ancora un giallo intricato: l’assassino non ha ancora né un nome, né un volto
Simonetta Cesaroni era nata il 5 novembre 1969, viveva a Roma, nel quartiere di Cinecittà e dal gennaio del 1990, lavorava come segretaria presso la Reli Sas, uno studio commerciale. E per alcuni giorni alla settimana, lavorava come contabile, presso gli uffici della A.I.A.G. (Associazione Italiana Alberghi della Gioventù) in Via Carlo Poma 2.
Era una ragazza molto riservata e neanche la famiglia ere a conoscenza dell’ubicazione dell’AIAG, come nessuno sapeva, tranne la madre, delle telefonate anonime che Simonetta Cesaroni riceveva sul posto di lavoro.
A proporle questo secondo lavoro fu Salvatore Volponi, il suo datore di lavoro.
Quello al numero 2 di Via Carlo Poma, è un grande complesso residenziale signorile, disegnato negli anni ’30 dall’architetto Cesare Valle, rimasto poi a vivere nel grande stabile composto da sei palazzine, dove lavoravano diversi portieri, tra cui Pietro Vanacore, detto Pietrino, responsabile della scala B, anch’egli residente nel palazzo prestava servizio insieme alla moglie, Giuseppa De Luca.
Un palazzo tranquillo, la cui unica macchia nera era la tragica morte di Renata Moscatelli avvenuta il 21 ottobre 1984. La donna era una pensionata 68 anni, nota come “la signorina”, che venne soffocata con un cuscino nella propria camera da letto dopo essere stata colpita alla fronte con una bottiglia semivuota di whisky da una mano sconosciuta.
Fu proprio in via Poma che Simonetta Cesaroni, il pomeriggio del 7° agosto, trascorse le sue ultime ore di vita.
Intorno alle 20:30, vedendo che Simonetta non era ancora tornata a casa e dal momento che nessuno l’aveva più sentita, i genitori iniziarono a preoccuparsi. Il padre andò a cercarla perfino al bar che la ragazza frequentava abitualmente ma nessuno l’aveva vista. La sorella fece il percorso che separava la fermata della metro da casa, nel vano tentativo di incontrarla, ma inutilmente.
La sorella Paola, decise così di telefonare a Salvatore Volponi, per sapere se avesse qualche notizia della sorella. Ma il telefono era sempre occupato.
Poiché Volponi non abitava lontano, lo raggiunse a casa insieme al fidanzato Antonello. Trovarono l’uomo molto nervoso. Disse loro che Simonetta avrebbe dovuto chiamarlo alle 18:30 ma non l’aveva fatto.
Incredibilmente, non sapeva dove si trovasse l’ufficio di via Poma. Su questo punto, venne poi smentito dalla moglie del portiere e da una collega di Simonetta che ricordarono di averlo visto in Via Poma qualche tempo addietro.
Trovato l’indirizzo, Salvatore Volponi, suo figlio Luca, la sorella di Simonetta e il fidanzato di quest’ultima, partirono insieme in auto, attraversarono la città e arrivarono nel quartiere Prati. Erano circa le 23:00.
Suonarono al citofono dell’ufficio e nessuno rispose. Poi, dopo qualche insistenza, i quattro riuscirono a convincere la moglie del portiere a farsi accompagnare all’interno 7 del terzo piano della scala B.
Il ritrovamento del corpo di Simonetta Cesaroni
La donna aprì la porta dell’ufficio con un mazzo di chiavi con un nastrino giallo. Altro mistero di questa storia fu relativo furono proprio le chiavi con cui la moglie di Vanacore aprì l’appartamento: pare che fossero quelle del mazzo di riserva dell’ufficio e non quelle del portierato.
Inoltre, la donna, come fu riferito al processo, tento di nascondere le chiavi a un poliziotto arrivato sul posto, tanto che dovette quasi strappargliele.
Volponi entrò per primo, percorse il corridoio, si affaccio in una delle stanze, poi indietreggiò e respinse Paola indietro.
Sul pavimento c’era la povera Simonetta Cesaroni, che giaceva riversa in una pozza di sangue raccolto dietro la schiena, la testa e tra i capelli scomposti. Il capo era rivolto verso la porta di ingresso della stanza. Indossa solo il reggiseno, abbassato sul seno a scoprirle solo i capezzoli, il corsetto, appoggiato di traverso sul ventre, ed è senza slip, ma con i calzini bianchi ancora ai piedi. Le braccia sono aperte e le gambe divaricate.
La stanza appariva decisamente in ordine e il computer era ancora acceso, segno che l’aggressore aveva agito mentre Simonetta stava lavorando.
Non vi erano vistose tracce ematiche sulle superfici, a eccezione di due striature sulla parete interna ed esterna accanto alla porta e un’altra sulla maniglia. Sempre nella stanza dell’omicidio, venne rinvenuto un pezzo di carta con un appunto che riportava scritto “CE” e disegnato un pupazzetto a forma di margherita con in basso a destra scritto “DEAD OK”.
Nel 2008 venne rivelato che era stata opera di un poliziotto che intervenne la notte del delitto e che lo aveva dimenticato sulla scena.
La successiva autopsia accertò che la vittima aveva sul corpo 29 ferite da taglio: Simonetta era stata uccisa con rabbia, oltre alle ferite sul volto, sull’addome e sui seni, era visibile un vistoso morso sul capezzolo del seno sinistro. Era stata colpita con un’arma appuntita, sicuramente un tagliacarte che però non venne ritrovato.
Il patologo stabilì che la morte poteva essere avvenuta tra le 18:00 e le 18:30.
Simonetta Cesaroni era stata uccisa in un ufficio con la porta chiusa e le chiavi che aveva nella borsa erano sparite.
Il primo sopralluogo nell’appartamento di Via Poma venne effettuato dal Vicequestore Sergio Costa la sera del 7 agosto.
Le indagini sulla morte di Simonetta Cesaroni
Dopo il ritrovamento del corpo della ragazza, partirono le indagini dirette dal giudice Pietro Catalani. E, davanti agli inquirenti, cominciarono le mezze parole, i vuoti di memoria, le ricostruzioni parziali che dettero un segno distintivo a questa brutta storia.
Il portiere Pietro Vanacore, fu il primo a salire sul banco degli imputati per rispondere della accusa di omicidio aggravato. La pista seguita era quella del delitto passionale. Secondo gli inquirenti, Vanacore avrebbe ucciso Simonetta Cesaroni in preda a un raptus dopo aver subito un rifiuto. Il portiere, venne prelevato della propria abitazione e condotto in questura la mattina del 10 agosto 1990.
Dalle prime indagini emerse che, contrariamente a quanto aveva asserito, tra le 14:35 e le 18:30 non si trovava nel cortile condominiale con i colleghi, orario in cui Simonetta era stata verosimilmente uccisa.
Inoltre, secondo gli investigatori, era il solo ad avere accesso a tutti i locali delle struttura. Ad aggravare poi la sua posizione c’erano le dichiarazioni dell’architetto Cesare Valle, al quale Vanacore prestava assistenza la notte.
L’anziano sostenne, a differenza del sospettato, sostenne che Pietrino era arrivato a casa sua alle 23:00, un’ora più tardi di quella concordata.
Per la Procura, Vanacore aveva avuto tutto il tempo di commettere il delitto ripulire la scena del crimine e disfarsi di alcuni effetti personali di Simonetta Cesaroni.
Dopo 26 giorni di carcere, il sospettato, tornò in libertà, in quanto un esame attento e minuzioso di alcuni elementi di presunta colpevolezza, tra cui una piccola macchia di sangue rinvenuta sui pantaloni dell’uomo e l’incompatibilità con il DNA prelevato delle tracce presenti sulla parete accanto alla porta, smentirono che poteva essere stato lui l’autore dell’assassinio.
Il primo colpo di scena a un anno dal delitto, il 3 aprile 1992, un altro nome finì nel registro degli indagati: si trattava di Federico Valle, nipote dell’anziano architetto del condominio di Via Poma 2, Cesare Valle.
Alla base delle nuove accuse vi erano le dichiarazioni di un certo Roland Voller che riferì alla polizia di conoscere l’identità dell’assassino di Simonetta. Voller indicò il nome del giovane, millantando di aver ricevuto alcune confidenze da Giuliana Ferrara, la madre di Federico, preoccupata di aver visto rincasare, la sera del 7 agosto 1990, il figlio sconvolto e con i vestiti sporchi di sangue.
Secondo Voller, Federico avrebbe uccise Simonetta Cesaroni per vendicare il tradimento del padre con una giovane impiegata degli Ostelli. Ma le sue dichiarazioni vennero smentite da tutte le risultanze processuali.
Anche la circostanza secondo cui il giovane andò a trovare il nonno la sera in cui morì Simonetta, venne successivamente smentita.
Le tracce di sangue rinvenute nei locali dell’interno 7 mostrarono una incompatibilità con il DNA di Federico Valle. Le probabilità che poteva essere stato lui l’autore dell’omicidio erano prossime allo zero e dunque, in assenza di prove, e accertata la falsità delle dichiarazioni del Voller, la vicenda giudiziaria che lo riguardava, venne presto archiviata venne prosciolto.
In questo frangente tornò a riecheggiare nelle aule del Tribunale di Roma il nome di Pietro Vanacore nell’ambito delle indagini su Federico Valle. Il capo d’imputazione per il portiere fu di favoreggiamento ma l’inconsistenza dell’impianto accusatorio lasciò cadere i sospetti. Da quel momento tutto tacque per oltre un decennio.
I test del DNA
A febbraio 2005 venne prelevato il DNA a 30 persone sospettate del delitto, tra cui anche Raniero Busco, fidanzato di Simonetta Cesaroni ai tempi del delitto.
A settembre del 2006, vennero sottoposti ad analisi, i calzini, il corpetto, il reggiseno, la borsa di Simonetta Cesaroni e altri effetti personali della ragazza.
Si trattava di elementi mai repertati, dimenticati per 14 anni in un armadio dell’Istituto di Medicina legale e acquisiti solo qualche mese dopo la richiesta.
L’esito dei test segnò una svolta significativa nelle indagini: sul corpetto e sul reggiseno venne individuato un DNA di sesso maschile che venne messo a confronto con i campioni prelevati due anni prima.
Nel gennaio 2007 arrivò la relazione del Ris di Parma: 29 dei trenta sospettati vennero scagionati così dalle prove del DNA poiché le tracce di saliva trovate sui tessuti appartenevano all’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni: Renato Brusco.
A carico del giovane vi era un alibi debole, fornito da sua madre, la presenza del DNA sul corpo di Simonetta, in particolare sul vistoso morso presente sul seno sinistro della ragazza e un movente rappresentato dal rapporto conflittuale tra i due.
Il processo contro Busco
Per Raniero Busco nel 2009, si aprirono le porte dell’aula del Tribunale, ben 19 anni dopo i fatti doveva rispondere dell’ipotesi di reato di omicidio volontario.
Raniero aveva 25 anni all’epoca dei fatti e viveva anche lui a pochi passi dal quartiere di Cinecittà, dove abitava la famiglia Cesaroni.
Il rapporto fra lui e Simonetta Cesaroni era tutt’altro che idilliaco. La ragazza aveva affidato alle pagine di un diario il suo dolore per un amore in cui credeva ma che non era corrisposto.
Il fidanzato venne descritto più volte come una persona aggressiva e violenta. Particolarmente significative erano le parole della ragazza contenute in una lettera, in cui esprimeva il disagio per una relazione che viveva con maggiore intensità rispetto al compagno.
Le lettere di Simonetta Cesaroni, le confidenze fatte alle amiche, vennero formalizzate agli atti quali elemento indiziario della presunta colpevolezza del fidanzato.
Busco, durante un’intervista che rilasciò al programma Porta a porta di Bruno Vespa il 29 aprile 2010, smentì le condotte volente nei confronti di Simonetta.
Al termine del processo di primo grado, il 26 gennaio 2011, Raniero Busco venne riconosciuto colpevole dell’assassinio di Simonetta Cesaroni e venne condannato a 24 anni di reclusione.
Su di lui gravavano numerosi indizi, spiegò l’avvocato Mondaini. Il morso che la vittima presentava in prossimità del capezzolo del seno sinistro acquisì fondamentale importanza ai fini processuali.
Sebbene lui negasse di aver mai inferto a Simonetta quella ferita, la verità scientifica, o così supposta, suggerì altre conclusioni.
Il medico legale che aveva eseguito l’autopsia, affermò che il morso sul seno della vittima era stato inferto contestualmente all’omicidio.
Al processo, i consulenti della Procura precisarono che l’unico DNA trovato sulla scena del delitto era riferibile a Busco ed era sulla parte sinistra del reggiseno e sul corpetto, proprio dove c’era il morso.
In più, le caratteristiche del morso erano così particolari da renderlo pressoché unico e riconducibile alla dentatura di Busco.
Per questo e altri elementi indiziari, la Corte dichiarò Raniero Busco colpevole del reato di “Omicidio aggravato de servizi e crudeltà verso le vittima”.
Il 27 aprile 2012, al termine del processo di Appello, Busco venne assolto dall’accusa per non aver commesso il fatto; le tracce del DNA vennero ritenute circostanziali e compatibili con residui che avrebbero potuto restare a un lavaggio blando della biancheria, mentre il morso si riveló essere un livido di altro tipo. Venne inoltre confermato l’alibi di Busco, che si trovava al lavoro.
Successivamente il 26 febbraio 2014, la Cassazione confermò la sentenza scagionando definitivamente l’imputato da un coinvolgimento nei fatti di via Poma.
Il delitto, dunque, restò senza colpevoli.
Il mistero
Simonetta Cesaroni fu sepolta nel cimitero Comunale di Genzano di Roma.
Pietro Vanacore si suicidò il 9 marzo del 2010 gettandosi nelle acque di Torre Ovo, non molto lontano da Taranto.
Sono passati 32 anni da quel lontano 7 agosto 1990 in cui Simonetta Cesaroni, fu barbaramente uccisa Via Poma, nell’ufficio in cui lavorava.
Secondo alcune voci insistenti, la Procura avrebbe riavviato l’attività istruttoria raccogliendo le dichiarazioni dei testimoni di allora.
Le nuove indagini si sarebbero concentrate attorno alla figura di un sospettato già noto, il cui alibi potrebbe crollare proprio a causa di alcune testimonianze e dell’acquisizione di nuovi elementi.
Ciò potrebbe finalmente portare a fare luce su tanti punti oscuri che caratterizzano uno dei casi irrisolti più noti della cronaca nera.
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