Via Monaci

Il mistero di Via Monaci: il giallo irrisolto che ha turbato Roma nel 1958

Roma, 11 settembre 1958 – In una mattina d’autunno, il tranquillo quartiere Nomentano di Roma diventa teatro di un omicidio eclatante che avrebbe tenuto con il fiato sospeso l’opinione pubblica italiana. Maria Teresa Viti, domestica di casa Fenaroli, scopre il corpo senza vita di Maria Martirano, 46 anni, nel suo appartamento in Via Monaci 21.

La storia del mistero di Via Monaci

Tutto ebbe inizio l’11 settembre 1958 a Roma, quando Maria Teresa Viti suonò il campanello dell’appartamento al primo piano di Via Monaci 21, dietro il Palazzo delle poste di Piazza Bologna nel quartiere Nomentano. Era di mattina presto. La donna era domestica di casa Fenaroli, suonò più volte ma nessuno le aprì. Preoccupata, chiese aiuto al portiere dello stabile e ai vicini di casa, fino a quando Marcello Chimenti, un vicino di casa appassionato di speleologia, riuscì a entrare nell’appartamento calandosi dal balcone del piano superiore e rompendo il vetro della finestra della cucina.

La scena che si presentò ai suoi occhi fu terribile: la padrona di casa, Maria Martirano, 46 anni, era riversa sul pavimento della cucina, avvolta in una vestaglietta a fiori. Era stata strangolata.

Tutto l’appartamento era in perfetto ordine tranne la camera da letto, che era stata messa a soqquadro: sul letto erano sparpagliate numerose polizze di assicurazione sulla vita. Si appurò in un secondo momento che erano state portate via 400 mila lire in contanti e i gioielli della vittima.

La squadra Mobile di Roma, guidata da Ugo Macera, scartò però l’ipotesi dell’omicidio per rapina poiché l’assassino aveva ignorato una somma più ingente, come se fosse andato a colpo sicuro.

Non c’era nessun segno di effrazione, a parte quello compiuto dal vicino di casa. La porta era chiusa e non appariva forzata, quindi era stata aperta dalla vittima.

Maria Martirano però, era una donna paurosa e riservata, non sembrava certo il tipo che apriva la porta a uno sconosciuto in piena notte. Anche perché, qualche giorno prima, aveva telefonato al marito in partenza per Milano (tornava a Roma solo nei fine settimana), molto spaventata perché qualcuno aveva tentato di forzare la porta.

Dopo il tentativo di effrazione la serratura venne cambiata. Un altro dettaglio rilevato dagli investigatori fu un mozzicone di sigaretta con il filtro: nell’appartamento c’era un portacenere traboccante di mozziconi erano tutte sigarette tipo “Nazionale senza filtro” fumate dalla vittima, tranne quella con il filtro. All’epoca la prova del DNA non esisteva e il fumatore di quella sigaretta restò sconosciuto.

Il sospetto dell’omicidio di Via Monaci

Ben presto i sospetti caddero sul marito della vittima Giovanni Fenaroli, 50 anni, imprenditore nel settore immobiliare la cui azienda milanese, la Fenarolimprese, stava attraversando un momento di difficoltà.

Pochi giorni prima del delitto, in agosto, aveva modificato la polizza di assicurazione sulla vita della moglie in modo da risultare unico beneficiario in caso di morte, anche violenta della donna. In ballo c’erano 150 milioni di lire, si scoprì poi che la firma di Maria Martirano sulla modifica della polizza era stata contraffatta.

La cifra, molto consistente per i tempi, senza alcun dubbio avrebbe fatto comodo a Fenaroli, spesso a corto di liquidità e pare sull’orlo del fallimento, ma l’uomo aveva un alibi di ferro.

Gli inquirenti, fecero risalire il decesso della moglie tra le 23,30 e le 24.00 del 10 settembre e l’imprenditore a quell’ ora si trovava a Milano, dove viveva abitualmente, in compagnia dell’amministratore della società, il ragioniere Egidio Sacchi, che confermò l’alibi.

Un alibi perfetto, che non fu però sufficiente a tenerlo lontano dai sospetti, tanto che la polizia avanzò una richiesta d’arresto, ma non ci furono prove sufficienti per incriminarlo, così, il 23 settembre del 1958, il giudice istruttore la respinse.

Le indagini sull’omicidio di Via Monaci

Le indagini non portarono ad altro, tanto che il caso sembrò destinato a rimanere irrisolto.

La polizia, supportata da una stampa sempre più colpevolista, cominciò a lavorare su un’altra ipotesi: Fenaroli era stato il mandante, ma l’omicidio aveva un altro esecutore materiale, un sicario assoldato dall’imprenditore stesso.

Macera e i suoi capirono che un anello debole della catena era Egidio Sacchi e lo fermarono per presunta falsa testimonianze e reticenza. Interrogato più volte, l’uomo crollò e confesso tutto. L’imprenditore fu così incastrato. Il caso Fenaroli tornò in scena: Sacchi affermò che, il 10 settembre, Giovanni Fenaroli gli avrebbe chiesto di prenotare un Volo Alitalia Milano/Roma, intestato ad un certo Sig. “Wolfang Rossi”, con partenza alle ore 19:35.

Sempre secondo Sacchi, poche ore prima del delitto, Fenaroli aveva telefonato alla moglie a Roma, in sua presenza e avvisandola che un certo Raoul, una persona fidata, si sarebbe presentato nel giro di pochi minuti in via Monaci, per ritirare alcuni documenti importanti che non dovevano finire in mano al fisco.

La persona fidata, quel qualcuno che i vicini avevano visto entrare in casa Fenaroli/Martirano verso le 23,30 del 10 settembre era Raoul Ghiani, un elettrotecnico milanese 28enne.

Il quadro iniziò rapidamente a comporsi. Secondo le indagini si scoprì che Fenaroli aveva conosciuto Ghiani grazie all’amicizia di quest’ultimo con Carlo Inzolia fratello di Amalia Inzolia, una donna con la quale Fenaroli, dieci anni prima, aveva avuto una relazione. La donna aveva una figlia, Donatella, che venne adottata da Fenaroli quando nel 1957 rimase orfana e che andò ad abitare proprio con lo zio Carlo.

Nella ricostruzione della polizia Inzolia era il “Terzo uomo”, quello che avrebbe messo in contatto il mandante, Giovanni Fenaroli, con l’esecutore, Raoul Ghiani.

Il processo di Via Monaci

Iniziò così nelle aule del Tribunale il caso Fenaroli che appassionò l’Italia.

La polizia cominciò a indagare a fondo su Raoul Ghiani, la chiave di volta del delitto, che per la sera dell’omicidio non aveva un alibi vero e proprio.

Secondo l’accusa, l’uomo avrebbe lasciato il lavoro alle 18:22 come risultava dal suo cartellino. E la mattina dopo, alle 10:00, era già in una Banca di Milano a sistemare il dispositivo di allarme.

Ma come aveva fatto a strangolare Maria Martirano a Roma tra le 23:30 e 00:30?

Secondo la ricostruzione della Polizia uscito dal lavoro era salito sull’Alfa 1600 di Fenaroli per correre all’aeroporto di Malpensa, in tempo per prendere l’ultimo aereo per Roma, in partenza alle 19,30. Arrivato all’aeroporto di Ciampino andò a casa della Martirano, la uccise e prese il vagone-letto per Milano alla stazione Tiburtina, in tempo per presentarsi al lavoro la mattino dopo.

Nel corso del processo, gli avvocati difensori tentarono inutilmente di smontare questa teoria puramente indiziaria, dimostrando che non stava in piedi, a meno che l’uomo non avesse utilizzato un’auto autorizzata a saltare tutti i semafori rossi e superare senza intoppi il traffico caotico delle due città.

Ma un’auto della polizia riuscì ad arrivare da viale Col di Lana a Malpensa in 44 minuti, dimostrando che il crimine poteva essere realizzato.

Per sua sfortuna Ghiani era un uomo abitudinario e tutte le sere, dopo il lavoro, si recava al solito bar a giocare a carte, biliardo e bere in compagnia. Nessuno degli amici riuscì a ricordare se la sera del 10 settembre 1958 lui fosse o meno con loro.

Un milione di lire, prelevato in Banca da Fenaroli stesso qualche giorno prima, sarebbe stato il compenso per l’assassino.

A questo punto la polizia e la magistratura avevano in mano tutto quello che serviva: un movente, due persone fortemente indiziate, la possibilità tecnica del crimine.

Ad attendere la sentenza davanti al Palazzo di Giustizia di Roma, meglio conosciuto come il Palazzaccio, c’erano almeno 20mila persone.

L’interesse per la vicenda, in un’Italia avida di cronaca nera dopo il Ventennio fascista in cui tutto era stato censurato, era cresciuto a dismisura, alimentato da una stampa tendenzialmente colpevolista.

Il pubblico si era diviso, come accade sempre in questi casi, tra colpevolisti e innocentisti, i primi erano più numerosi dei secondi, anche perché Fenaroli era tutto fuorché simpatico.

Le condanne per l’omicidio di Via Monaci

Il 10 giugno 1961, Giovanni Fenaroli e Raoul Ghiani vennero condannati alla massima pena prevista in Italia: il carcere a vita.

Carlo Inzolia, al contrario, venne assolto per insufficienza di prove.

L’appello, datato 27 luglio 1963, confermò l’ergastolo per Fenaroli e Ghiani ma non l’assoluzione di Inzolia, il quale, riconosciuto complice, venne condannato a 14 anni di reclusione.

La Cassazione confermò tutto. Un’ulteriore prova contro Ghiani emerse nel 1960 quando in una scatola custodita nel suo armadietto alla Vembi, dove lavorava, vennero trovati i gioielli di Maria Martirano rubati la notte dell’omicidio.

Tutti gli accusati si erano sempre proclamati innocenti. In effetti allora e anche oggi le parti dubbie dell’inchiesta, interamente indiziaria, furono numerose. L’avvocato Francesco Carnelutti, famosissimo difensore di Fenaroli, in appello individuò nelle tesi dell’accusa ben 33 punti deboli.

Nel 1975, avendo nuovi elementi, i difensori di Ghiani cercarono di ottenere la revisione del caso.

Nel frattempo Fenaroli era morto in carcere, e Carlo Inzolia era tornato in libertà nel 1970.

Egidio Sacchi, il ragioniere di Fenaroli, il super testimone che aveva indirizzato il caso sulla colpevolezza dei tre condannati era emigrato in Argentina.

Ma in questa storia erano tante le prove che non tornavano, come quella dei gioielli che Ghiani, per inscenare una rapina, avrebbe sottratto nella casa di Via Monaci 21 e che, nonostante le perquisizioni accurate del suo armadietto sul posto di lavoro, saltarono fuori soltanto due anni dopo grazie a una soffiata fatta dal compagno di cella dell’uomo.

Ma non solo, gli avvocati di Ghiani fecero notare che effettivamente dopo l’arresto del loro assistito la polizia controllò e sequestrò l’elenco dei passeggeri del volo Alitalia, Milano/Roma, delle 19:35 ma tale documento sequestrato, ma tale documento non comparve mai tra gli atti del processo. Nella lista passeggeri c’era effettivamente un uomo di nome Rossi e non era Ghiani ma bensì l’ingegner Wolfang Rossi, che, occasionalmente, svolgeva qualche lavoro anche per Fenaroli, il cui posto era stato prenotato proprio da Egidio Sacchi.

Ma l’uomo non poté scagionare Ghiani, perché era morto in un incidente d’auto sulla via Appia, 22 giorni dopo il delitto di via Monaci.

A questo punto furono diverse le domande che sorsero spontanee. Chi aveva messo i gioielli nell’armadietto di Ghiani per farli trovare a chi di dovere?

Possibile che Sacchi avesse tramato da solo per incastrare Fenaroli e Ghiani? O forse dietro di lui c’era qualcun altro che lo aveva manovrato?

L’ipotesi del complotto

Prese allora corpo la tesi di un complotto, tra l’altro già raccontata all’epoca del delitto da alcuni organi di stampa.

La tesi sosteneva che Fenaroli e la moglie, entrarono in possesso di documenti compromettenti e avrebbero ricattato l’Italcasse, con cui l’imprenditore era in affari, l’Eni e alti esponenti della DC.

A causa di questo ricatto, per evitare lo scandalo, i servizi segreti sarebbero intervenuti per recuperare i dossier compromettenti. Qualcuno del Sifar, i servizi segreti militari italiani, si sarebbe presentato in Via Monaci la sera del 10 settembre, aprendo, probabilmente, una trattativa andata poi a finire male.

La donna fu uccisa e, dovendo giustificare il cadavere, gli uomini del Sifar avrebbero depistato le indagini, tessendo l’accusa nei confronti di Fenaroli e Ghiani.

Nel 1975, però, questo scenario del complotto non era ancora sostenuto da niente e nessuno, per cui Ghiani e i suoi difensori non ottennero nessun nuovo giudizio.

Le rivelazioni di De Grossi

Solo anni dopo, un ex-funzionario del Sifar, il tenente colonnello Enrico De Grossi, fece delle rivelazioni importanti, tanto che nel 1996 Ghiani ci riprovò presentando un esposto alla Procura della Repubblica, a Roma, per far riaprire il caso.

In sostanza, De Grossi avvalorò la tesi del complotto, sostenendo e confermando che Fenaroli era in contatto con gli ambienti politici della Democrazia Cristiana, che gli avrebbero consentito di entrare in possesso di documenti molto compromettenti, comprovanti il coinvolgimento di un grosso uomo di Stato in una storia di “finanziamenti illeciti”.

De Grossi, però non aveva documenti per provare, ciò che aveva detto, non aveva nulla che potesse ricostruire i fatti accaduti e ribaltare vecchie sentenze.

Nel 1981 Raoul Ghiani ottenne le semilibertà, cosa rara per un ergastolano e nel 1984 il Presidente Pertini gli concesse la grazia.

Il delitto di via Monaci è un mistero ancora tutto da chiarire. La verità probabilmente non la sapremo mai.

@menticriminali Se vuoi ascoltare la puntata completa segui il link in bio! #serialkiller #truecrime #truecrimetok #truecrimetiktoker #truecrimetiktok  #serialkillerpodcast #serialkillerfact #serialkillertok #crimetok #murdertok #killer #crimestory #fy #fyp #foryou #neiperte #viral #assassiniseriali #menticriminali #omicidiofenaroli #misterodiviamonaci ♬ suono originale – Menti criminali.it

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