Roma, 1963 – La storia dell’omicidio di Christa Wanninger si snoda tra le strade della Roma della Dolce Vita, unendo il fascino e il mistero di un’epoca riconosciuta per il suo glamour e i suoi segreti oscuri. Il 2 maggio 1963, la tragica morte di questa giovane modella e aspirante attrice tedesca si trasforma in un caso di cronaca che cattura l’attenzione dell’opinione pubblica e solleva interrogativi che, dopo decenni, rimangono senza risposta.
La storia dell’omicidio di Christa Wanninger
L’omicidio di Christa Wanninger divenne uno dei casi di cronaca nera che maggiormente attirò l’interesse dell’opinione pubblica nel periodo della Dolce Vita.
Sono passati esattamente 61 anni da quel 2 maggio 1963, quando la modella e attrice tedesca venne uccisa a Roma. Un omicidio brutale, la cui rapidità si scontrò con una lentezza giudiziaria durata più di due decenni.
Erano le 14,30 di un tiepido pomeriggio di primavera. Francesca Fracassi, la portiera di uno stabile al n. 81 di Via Emilia, strada parallela a Via Veneto, vide entrare nel palazzo una giovane ragazza. La donna non ci fece molto caso; era il primo pomeriggio, ma non era affatto raro vedere passare ragazze sconosciute per quelle vie a ogni ora del giorno.
Christa Wanninger entrò nell’ascensore, l’impianto si fermò al quarto piano dove c’era l’appartamento di una sua amica Gerda Hodapp. La ragazza fece appena in tempo a chiudere i battenti che qualcuno l’aggredì pugnalandola violentemente alla schiena.
Le urla strazianti richiamarono l’attenzione della portinaia, che si affrettò su per le scale, e di alcuni inquilini del palazzo che, spaventati da quelle grida disperate, allertarono i soccorsi. La donna percorse alcune rampe e si imbatté in un giovane uomo, alto, abbastanza emaciato, vestito di blu che scendeva con posso tutt’altro che allarmato.
I due si scambiano anche qualche battuta: l’uomo affermò che su c’era una ragazza che si lamentava prima di proseguire verso l’uscita dello stabile.
Giunta al quarto piano la portiera trovò la ragazza che poco prima aveva varcato la soglia dello stabile. A terra, immobile in un lago di sangue.
La giovane donna, colpita da sette coltellate che la portarono alla morte ancor prima di arrivare in ospedale, si chiamava Christa Wanninger. Una bellissima 22enne tedesca, bionda e fisicamente minuta.
Christa Wanninger viveva da qualche tempo nella capitale con il sogno di entrare nel mondo della moda, attratta dal mito della Dolce Vita, aveva qualche frequentazione con i personaggi della vita notturna romana, ma non poteva di certo essere considerata la punta più luccicante del diadema a che illuminava Via Veneto in quegli anni.
Le indagini
A coordinare le indagini fu il commissario Domenico Migliorini, capo della squadra Mobile di Roma. I poliziotti accorsi sul luogo suonarono subito al campanello dell’appartamento di Gerda Hodapp, che aprì solo alle 14:49 e che negò che a quell’ora stesse aspettando l’amica.
La ragazza affermò inoltre di non aver sentito nulla: né la gente che da minuti si muoveva oltre la porta di casa sua, né tantomeno le grida di Christa Wanninger uccisa davanti la porta di casa sua.
Il comportamento di Gerda Hodapp era strano e naturalmente venne interrogata per prima per il delitto. L’appartamento della giovane aveva un secondo ingresso, e questo fece pensare da subito alle forze dell’ordine che avesse potuto favorire in qualche modo la fuga dell’assassino.
Fu però la portiera, a rendere una testimonianza fondamentale per il caso: si ricordò dell’uomo vestito di blu che aveva incrociato sulle scale e che era uscito da quel palazzo proprio al momento dell’omicidio. Secondo la donna aveva circa trent’anni, altezza intorno al metro e settanta, corporatura atletica, bruno, capelli lisci, con un naso particolarmente vistoso e vestito in maniera impeccabile.
Il “Caso Christa” scatenò le più svariate congetture della stampa, che iniziò a disegnare ambigui scenari fatti di scandali e crimini che avevano come sfondo il mondo del cinema e sull’identità del misterioso uomo in blu.
La vittima aveva un fidanzato, un ex calciatore toscano di 34anni: Angelo Galassi, conosciuto nel ‘60, in un caffè di Via Veneto grazie ad un’altra ragazza tedesca. Il loro rapporto era contraddistinto da frequenti litigi a causa della sua gelosia.
Anche lui venne trattenuto e interrogato. L’uomo apparve estremamente scosso e disperato, mostrando da subito un atteggiamento collaborativo.
Non esitò a confessare che il rapporto tra lui e Christa Wanninger era burrascoso a causa della sua gelosia che si scatenava per il modo di fare della ragazza che non amava i legami stretti, tant’è che aveva rifiutato più volte le proposte di matrimonio di Angelo preferendo avere molte frequentazioni e divertirsi trascorrendo serate spensierate e leggere.
Raccontò anche che la notte precedente il delitto, avevano avuto l’ennesima discussione e che si erano riconciliati come sempre. Inoltre fornì anche un alibi di ferro per quel giorno.
Gli inquirenti, giunsero così alla conclusione che l’ex calciatore non poteva essere l’assassino.
La pista dell’omicidio passionale venne così abbandonata. La polizia svolge ulteriori indagini sul luogo del delitto, individuando ed interrogando i condomini dello stabile ed i testimoni sopraggiunti sul posto.
Il mistero si infittì. Saltò fuori anche una agenda appartenuta alla vittima. Tra le sue pagine erano riportati i nomi di oltre cento persone, ma tutte risultarono in possesso di un alibi ed estranee ai fatti.
La più sospettata rimase Gerda Hodapp, l’amica dalla quale si era recata Christa Warninger quel tragico pomeriggio del 2 maggio 1963.
L’aspirante attrice venne reclusa per due mesi per favoreggiamento e reticenza. Ma non fornendo alcun indizio utile, venne rimessa in libertà.
L’interesse della stampa riservato al caso Wanninger, rimasto senza un colpevole, diminuì settimana dopo settimana fino a quando, nel marzo del 1964.
La svolta nelle indagini sulla morte di Christa Wanninger
A dare nuovo input all’indagine, fu l’inaspettata e misteriosa telefonata giunta al giornalista Maurizio Mengoni di “Momento Sera”.
Una voce maschile anonima gli disse di essere il fratello dell’assassino di Christa dichiarando di sapere tutto sul caso Wanninger, chiedendo 5 milioni di lire per raccontare tutta la verità.
Mengoni però prese tempo riuscendo a trattenere al telefono l’anonimo informatore mentre la redazione del giornale avvertiva i Carabinieri che riuscirono a rintracciare, con estremo tempismo, il luogo da cui proveniva la telefonata. Era una cabina di Piazza San Silvestro. L’anonimo individuo venne arrestato. Aveva un volto ed un nome. Si chiamava Guido Pierri, un ambiguo pittore 32enne carrarese che si manteneva insegnando.
In tasca gli trovarono un coltello, simile a quello che uccise Christa Wanninger. Venne così ordinata la perquisizione della casa dove gli inquirenti rinvennero diversi quadri raffiguranti donne seviziate, un abito blu e quattro quaderni in cui il Pierri, con dei disegni e degli scritti, raccontava i pedinamenti e pianificava gli omicidi di diverse donne. E soprattutto confessava l’assassinio della Wanninger.
L’uomo inoltre risultava privo di alibi per il giorno dell’omicidio. Interrogato, cambiò molte volte versione, fornendo particolari, a volte inverosimili, altre volte abbastanza vicini alla realtà.
Il pittore affermò che le cose scritte nei suoi diari erano solo fantasie che aveva raccolto perché voleva scrivere un romanzo sulla vicenda di Christa Wanninger e soprattutto che lui con l’omicidio non c’entrava nulla. L’idea della telefonata era nata dal fatto di trovarsi in precarie condizioni economiche, intendeva solamente fare un po’ di soldi approfittando della notorietà del caso.
In mancanza di prove certe, Pierri venne scagionato, mentre per i reati di tentata truffe e porto d’armi abusivo scontò un paio di mesi di carcere e poi beneficiò dell’amnistia.
Nel 1973 l’ex maresciallo dei Carabinieri Renzo Mambrini pubblicò un libro sul caso dal titolo “Christa” nel quale indicò Pierri come l’assassino della ragazza ed esponendo alcune prove a testimoniare la responsabilità dell’uomo.
Il 26 novembre dello stesso anno però Mambrini, dopo aver rivelato alla stampa di avere notizie importanti sul caso, venne travolto ed ucciso da un’autovettura che si diede alla fuga. L’ex maresciallo si portò così i suoi segreti nella tomba.
Le argomentazioni contenute nel libro sono talmente convincenti che la Procura riaprì il caso. Si scoprì che le prime indagini erano state inadeguate e che nessuno aveva mai verificato l’alibi del pittore, che si rivelò inventato.
Il nuovo studio dei diari rivelò inoltre particolari dell’omicidio mai pubblicati dai media, tanto che nel maggio del 1977, Pierri venne arrestato nuovamente.
Una perizia psichiatrica «assolutamente tardiva» affermò che l’artista era schizofrenico, incapace di intendere e di volere.
Le sentenze
I quaderni con i disegni furono distrutti dall’indagato e molti testimoni dei fatti, al momento del nuovo processo, erano deceduti o irreperibili. Il 10 gennaio 1978 la Corte d’Assise lo assolse per insufficienza di prove.
Nel 1985 la Corte d’Appello ribaltò la sentenza giudicandolo colpevole dell’omicidio di Christa Wanninger, a ben 22 anni dalla morte della ragazza.
Nel 1988 la Cassazione confermò la sentenza nonostante la colpevolezza fosse basata sul semplice ricordo di quanto era scritto nei diari, essendo questi andati distrutti.
Nonostante la colpevolezza, Pierri restò libero: non andò in carcere, perché all’epoca dei fatti era schizofrenico e incapace quindi di intendere e di volere. Ma non andò nemmeno in un ospedale psichiatrico, dato che nel frattempo risultava guarito, e non socialmente pericoloso. Fu senza dubbio una sentenza che fece discutere.
Nonostante la chiusura dell’inchiesta giudiziaria permangono ancora oggi i dubbi: era veramente Guido Pierri l’uomo in blu che scendeva le scale mentre Christa Wenninger moriva accoltellata? Perché la Hodapp non fu mai indagata come probabile complice dell’assassino?
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