Alleghe, 1933-1946 – In un contesto apparentemente idilliaco, il piccolo paese di Alleghe, incastonato nelle Dolomiti, diventa la scena di una serie di delitti oscuri e misteriosi. Questa storia, che si dipana lungo un arco temporale che va dal 1933 al 1946, è stata per molto tempo avvolta nel silenzio e nell’omertà, fino a quando un’inchiesta giornalistica ha iniziato a svelarne i contorni.
La storia degli omicidi di Alleghe
Nel piccolo paese di Alleghe, situato nel cuore delle Dolomiti, dal 1933 al 1946, vennero commessi una serie di omicidi nei pressi dell’omonimo lago e all’interno dell’”Albergo Centrale”, di proprietà della famiglia Da Tos.
Il caso divenne noto dopo la pubblicazione di un libro omonimo scritto dal giornalista Sergio Saviane, nel 1964.
Tutto ebbe inizio la mattina del 9 maggio 1933, quando Adelina Da Tos, figlia dei proprietari del “Centrale”, Elvira Riva e Fiore Da Tos, uscì correndo dall’albergo, gridando che Emma De Ventura, una delle cameriere dell’albergo, si era uccisa ed era in una pozza di sangue, nella camera n. 6.
I datori di lavoro, il parroco e il medico condotto che, per primo aveva effettuato i rilievi sul corpo, sostennero che la ragazza si fosse suicidata. Voci di paese aggiunsero che il movente era l’amore.
Ma Emma non sembrava, a detta di chi l’aveva vista quella mattina, sciupata triste e depressa, tanto da togliersi la vita; poi c’era qualcosa di strano, di poco logico. Stando alla ricostruzione, la ragazza si sarebbe uccisa bevendo, prima, della tintura di iodio, poi tagliandosi la gola con un rasoio.
La bottiglietta della tintura, però, era chiusa e sistemata su un ripiano e il rasoio si trovava sul comodino, un po’ distante da dove giaceva morta Emma.
Ma tutto questo non importava, per le autorità la ragazza si era suicidata: caso chiuso ed archiviato.
Ad Alleghe si torno così la routine quotidiana.
Aldo Da Tos, l’altro figlio dei Da Tos, convolò a nozze con Caterina Finazzer, appartenente, anche lei, a una famiglia facoltosa.
Il matrimonio si fece anche se Caterina sembrava poco convinta per un insieme di cose che a un matrimonio combinato non facevano certo bene. Comunque, gli sposi, partirono per il viaggio di nozze: Roma, Venezia, ma nella Laguna veneta accade qualcosa, perché i due tornarono a case prima del previsto.
Caterina era tutt’altro che tranquilla. Chiamò subito la madre dicendole di venire a prenderla.
Voleva andare via, ma non ci riuscì. Il giorno dopo, il 4 dicembre 1933, il suo corpo galleggiava nelle fredde acque del lago.
Un altro suicidio, dissero tutti. Era depressa.
Il cadavere di Caterina, però, presentava dei lividi sul collo che sembravano impronte di dita.
Ma non per il medico legale. Per lui erano solo i primi segni di decomposizione, ma la ragazza era morta da poche e le acque in cui era stata ritrovata erano ghiacciate.
Si trattava di suicidio e basta, questo dichiararono le autorità. Era un altro caso chiuso.
Passarono gli anni, il 18 novembre 1946, sempre ad Alleghe, in piena notte, i coniugi Del Monego, vennero uccisi a colpi di pistola nel vicolo LaVoi, mentre stavano tornando a casa, dopo aver chiuse il loro negozio. Portavano con loro l’incasso della giornata.
Non ci furono testimoni e nessuno fece caso ai colpi sparati. I corpi vennero trovati il giorno dopo, non c’era ombra di denaro e alla donna mancavano gli orecchini.
Del delitto venne inizialmente accusato Luigi Verocai, un latitante evaso dal carcere prima della condanna, ma poi prosciolto dalle accuse. Il delitto venne quindi archiviato come omicidio a scopo di rapina a carico di ignoti.
Sergio Saviane, giovane giornalista con un trascorso di gioventù ad Allegre, era a Castelfranco Veneto quando, nel novembre 1946, lesse sui giornali della morte dei coniugi Del Monego.
Le chiacchiere della gente, parlavano di delitti, non di suicidi. Con il tempo Saviane si convinse che c’era un possibile collegamento tra le morti del 1933 e quelle del 1946.
Nei primi anni del 1950, il giornalista era a Roma. Ma i misteri di Alleghe gli giravano sempre testa e ne parlo al suo caporedattore e insieme concordarono che la storia meritava un’inchiesta approfondita.
L’inchiesta giornalistica sulla vicenda di Alleghe
Nel 1952, Saviane tornò ad Alleghe e cominciò a indagare. Parlò con i suoi amici alleghesi, li conosceva bene tutti, parlò anche con Aldo Da Tos, ma trovò un clima di terrore, che produceva molta omertà.
Tra tutti quelli che non parlavano però, qualcuno lo incoraggiò a scrivere, a raccontare e a non demordere.
Saviane, continuò le sue inchieste e alla fine, nel 1952, scrisse il suo articolo pubblicato su “Il lavoro Illustrato” con il titolo: La Montelepre del Nord (titolo ironico, riferito alle Montelepre Siciliana del Bandito Giuliano).
Nell’articolo i quattro delitti di Alleghe vennero messi in relazione e si insinuò il sospetto che dietro tutti ci fosse un’unica mano.
Nel dicembre 1952, Sergio Saviane fu citato in giudizio e querelato dai Da Tos, che, non essendo nominati nell’articolo, si sentirono ugualmente chiamati in causa.
Il processo andò male per Saviane, il reato di cui venne accusato fu diffamazione a mezzo stampa che gli valse otto mesi con la condizionale.
Tutto tornò al punto di partenza.
Le indagini sulle morti sospette ad Alleghe
Ma fu proprio sull’onda di quell’articolo di giornale che l’inchiesta sui delitti di Alleghe cominciò, superando reverenze e omertà, grazie all’impegno di due carabinieri, Domenico Uda ed Ezio Cesca, investigatori di razza the non aspettavano il “pentito” di turno per sviluppare un’indagine.
Il brigadiere Cesca si recò in incognito ad Alleghe, trovando lavoro come operaio e, frequentando osterie, raccolse quanto si raccontava in giro scoprendo che i coniugi Del Monego sarebbero stati uccisi per qualcosa che avevano visto.
Venne fatto il nome di Giuseppe Gasperin. Cesca riuscì a conoscerlo e ne divenne amico, tanto che l’uomo gli confido che nel vicolo Lo Voi, abitava una signora, Corona Valt, che poteva sapere qualcosa dell’omicidio.
L’anziana donna gli raccontò che la notte del delitto aveva visto tre persone nel vicolo, una delle quali era proprio Gasperin.
L’uomo venne convocato in caserma dove venne arrestato; qui, interrogato, rivelò i nomi dei responsabili dei delitti portando, nel 1958, all’arresto di Pietro de Biasio, il marito di Adelina e Aldo Da Tos e, pochi mesi dopo, anche Adelina Da Tos, fu accusata di aver ucciso Emma De Ventura.
Il movente che mosse gli assassini fu un peccato di gioventù della proprietaria dell’Albergo Centrale, Elvira Riva: un figlio, Umberto Giovanni, subito dato in affidamento.
La donna, incinta, sposò Fiore Da Tos, che da lei ebbe altri due figli: Aldo e Adelina, e che non le perdonò mai quel figlio illegittimo.
Quando il giovane, una volta cresciuto e scoperta la verità, arrivò ad Alleghe, per pretendere la sua parte di eredità, la cosa fu gradita e il i Da Tos decisero di farlo fuori.
Emma casualmente scoprì il corpo del giovane, nelle cantine dell’Albergo, e per questo fu uccisa.
Identica sorte toccò a Caterina Finazzer e poi ai Del Monego che la notte del 4 dicembre 1933, avevano visto Aldo portare il corpo della moglie verso il lago.
La sentenza
L’8 giugno 1960, dopo un processo durato sei mesi, con 33 udienze, la Corte d’Assise di Belluno, riconobbe i fratelli Aldo e Adelina Da Tos e Pietro De Blasio, colpevoli, condannandoli all’ergastolo.
Aldo e Pietro vennero puniti per la morte di Carolina Finazzer e dei coniugi Del Monego, Adelina per il solo omicidio Finazzer. Nessun colpevole per l’omicidio, di Emma De Ventura perché caduto in prescrizione.
Trent’anni di reclusione, invece, per Giuseppe Gasperin, di cui sei condonati per aver contribuito, con la sua confessione a incastrare i membri del Clan del Centrale.
Nel 1964, a Venezia, durante il Processo d’Appello, anche i Da Tose e il De Biasio confessarono di aver partecipato agli omicidi, proposero dei ricorsi che la Corte di Cassazione respinse, confermando, il 4 febbraio dello stesso anno, la sentenza di primo grado: ergastolo.
Aldo Da Tos e Pietro De Biasio morirono in carcere, mentre Adelina Da Tos, a 73 anni, ricevette la grazia dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Era l’inizio del 1981.
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